Con l’autunno scatta, ogni anno, anche il conto alla rovescia per la redazione e l’approvazione della manovra economica per l’anno successivo che si concluderà, a dicembre, con l’approvazione della Legge di Bilancio. Questa sarà la terza a firma del governo Meloni e, probabilmente, vi si cominceranno a vedere quali siano realmente i punti fermi della politica economica che questa maggioranza vorrà seguire da qui a fine legislatura (e probabilmente anche dopo, perché pare evidente che Giorgia Meloni punti alla riconferma nel 2027). Ancora è presto per poterli analizzare perché non è ancora stata presentata la bozza che si attende nei prossimi giorni ma è possibile cominciare a ipotizzare quale possa essere l’indirizzo che Meloni e Giorgetti, in primis, vogliano imprimere al 2025.
Pare scontato, visti anche i dati macroeconomici che pongono l’Italia tra i migliori stati a livello di performance economica in questi due anni, che imposte e crescita possano essere i due capitoli principali che si vorranno affrontare ben sapendo che di risorse non ce ne siano a bizzeffe perché già sperperate negli scorsi anni con iniziative opinabili che hanno mostrato tutta la loro inconsistenza (seppur a carissimo costo) già lo scorso anno e che dovranno essere ammortizzate ancora per lungo tempo.
Detto questo lo scorso anno già si introdotto, seppur a scadenza, un taglio del cosiddetto “cuneo fiscale”, che è l’insieme di tutte le imposte e i contributi che gravano sul costo del lavoro, il quale seppur non ancora ottimale è stato sicuramente uno stimolo importante anche solo a livello di aspettative perché per la prima volta si tentava un intervento non a livello di bonus o “liberalità” ma che avrebbe potuto diventare strutturale e l’obiettivo è sicuramente questo. La trasformazione da temporaneo a definitivo il taglio del cuneo che se perseguito in maniera sostenibile porterebbe vantaggi sia dal lato dei lavoratori, con un aumento del potere d’acquisto, sia dal lato dei datori di lavoro con una riduzione del costo del lavoro e, di qui, anche un incentivo ad assumere.
Stessa cosa si può dire per la rimodulazione dell’IRPEF su tre scaglioni che si vuole portare a definitiva ma questo intervento, insieme a quello precedente, necessitano di circa 14 miliardi di coperture che devono essere previste strutturalmente e, qui entra in gioco la diminuzione della spesa che è l’unica via per reperirle senza andare a incidere sul deficit annuo.
Se a questo si volesse, poi, aumentare le risorse per scuola e sanità, due dei segmenti più importanti per spingere il Paese fuori dalla stagnazione pluridecennale che stava vivendo e agguantare un sentiero virtuoso di crescita allora ecco che diventa necessario agire sulla spesa e, in particolare, sulle tax expenditures, cioè le agevolazioni e le esenzioni fiscali che, in pratica, si traducono in deduzioni e detrazioni fiscali, imposte sostitutive (come la cedolare secca sulle locazioni o l’imposta di capital gain), le aliquote ridotte (come nel caso dell’IVA) o i crediti d’imposta per le imprese.
Non è un mistero che il grosso problema finanziario odierno derivi da alcuni capitoli interni a questa categoria inseriti, seppur in maniera provvisoria, dai governi precedenti – si parla, ovviamente, dei bonus edilizi come il super-bonus 110% e il bonus facciate – che hanno creato un vero e proprio buco di bilancio superiore addirittura ai finanziamenti derivanti dal piano NGEU a sostegno dell’attuale PNRR post pandemico che verrà credibilmente ammortizzato lasciando correre il debito pubblico che potrebbe arrivare oltre il 138% nel 2026 per, poi, cominciare a decrescere in maniera strutturale. Un riordino e una razionalizzazione di queste agevolazioni, che comunque rappresentano uno stimolo all’investimento, sono, quantomeno, necessarie per garantire una sostenibilità nel tempo alle politiche economiche e finanziare un progressivo abbassamento della pressione fiscale che è prodromico alla crescita.
È evidente, però, che la situazione odierna obbliga a stabilire una scala di priorità da seguire all’interno di un piano di azione pluriennale, direi almeno di legislatura se non addirittura più lungo ancora, poiché la situazione finanziaria italiana non è certo rosea nonostante i buoni risultati che si sono registrati negli ultimi anni a livello di progressione del PIL e di introiti fiscali andando, invece, ad abbattere il deficit già da quest’anno, che potrebbe fermarsi a circa mezzo punto percentuale in meno di quanto indicato nel DEF, per poi scendere fino al 2,7% del PIL nel 2026, quindi ben sotto il parametro stabilito dal Patto di Stabilità.
Da qui è credibile che alcuni temi, come l’estensione della flat tax alle partite IVA, la pace fiscale o il superamento della “riforma Fornero”, molto “cari” alla Lega, vengano rimandati a tempi migliori come progetto di legislatura, cosa condivisa da tutta la squadra di governo.
Non è mai facile ipotizzare come verrà strutturata la manovra economica per l’anno successivo soprattutto quando il governo e la sua maggioranza si muovono all’interno di un piano strutturato di riforma fiscale, come da legge delega 111/2023, proprio perché i punti caratterizzanti il progetto si scontrano con la realtà e le coperture che si possono ritrovare per ognuno di essi; vero è che si può sempre contare con l’effetto moltiplicatore dei vari provvedimenti che si dovrebbero trasformare in punti di PIL in più i quali, a loro volta, andrebbero a spingere una crescita degli introiti fiscali ma, c’è sempre un ma, occorre sempre soppesare quale possa essere lo scenario meno favorevole contrariamente a quanto fatto in passato, per evitare che le riformi si trasformino in deficit e, di qui, in nuovo debito pubblico, cosa che l’Italia non ha assolutamente bisogno, anzi.
Altra cosa è, almeno, ingenuo mettere a bilancio preventivo le proiezioni sul recupero del sommerso, poiché questo è calcolato in maniera spannometrica e non rappresenta sicuramente un dato verosimile, meglio, invece, utilizzare queste somme a consuntivo per la riduzione dell’indebitamento anziché a copertura di spese future e si spera che questo esecutivo non voglia applicare questo escamotage, spesso utilizzato in passato, per far quadrare i conti sulla carta.
In definitiva anche per quest’anno la redazione della Manovra Economica si presenta come una corsa ad ostacoli, l’esperienza del 2023, ma anche del 2022 seppur lavorando sulle bozze lasciate dai predecessori, ha mostrato che questo governo sappia muoversi in maniera molto intelligente e prudente pur cercando di mantenere le promesse e gli indirizzi indicati nel programma elettorale. Finora i dati macroeconomici sembra dar ragione a Giorgia Meloni e alla sua squadra, anche se certuni non sono esattamente d’accordo, però sarà il futuro a dirci se tutto questo si rifletterà anche nella Legge di Bilancio a venire e nello sviluppo del Paese.
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